Storia della pasta Italiana (parte 4)
e una ricetta storica dall'archivio del New York Times (1953)
Il passato è finito ma il futuro non è ancora qui
Antonio Gramsci
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The English version of Fritto Misto is Food Notes from Bologna
Quante sono le persone che associano la parola pasta all’Italia?
Milioni, in patria e all’estero.
Ed è proprio questa associazione così diffusa che, di fatto, dopo un viaggio lunghissimo, mette la parola Fine alla storia della pasta assurta a simbolo della identità nazionale italiana.
Questo processo ha un finale recente visto che il fenomeno arriva a compimento nel quindicennio successivo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Ogni volta che rifletto ad alta voce su questo fatto durante una lezione di comunicazione del cibo, registro stupore tra i partecipanti.
L’idea che pasta e italianità non siano un tutt’uno da sempre, oggi sembra strana.
E invece la pasta impiega secoli prima di diventare una componente significativa della cultura italiana, non solo di quella gastronomica.
Dove ci siamo lasciati
A Napoli dove, tra Seicento e Ottocento, la pasta diventa un cibo di base anche per la povera gente; sempre qui, troviamo il primo abbinamento pasta e pomodoro, una spinta formidabile alla sua diffusione.
Alla formazione del Regno d’Italia (1861) che spinge i leader politici a cercare elementi aggreganti della nascente identità nazionale anche nella cultura gastronomica. Per altro seguendo un modello già praticato con successo nei secoli precedenti, e allo stesso scopo, dalla Francia e, nell’Italia delle Signorie, solo dalla Toscana dei Medici.
Al manuale artusiano (1891) che propaga la diffusione della cultura della pasta tra gli italiani. I quali, va detto, consumano ancora e prevalentemente zuppe di pane e polenta, veri pilastri della dieta quotidiana contadina e popolana, almeno fino a metà Novecento.
Questa newsletter conclude il viaggio nella storia della pasta Italiana composto da una serie di 4 (parte 1, parte 2, parte 3). Naturalmente ci saranno nuove storie e ricette, anche un po’ di Via Emilia, ma ora i protagonisti degli ultimi avvincenti capitoli stanno aspettando.
Si va?
Negli ultimi trent’anni del XIX secolo, entrano in scena due attori sinora estranei a questa storia
gli imprenditori italiani della pasta;
gli immigrati che partono verso Europa e America in cerca di una vita migliore.
La geografia della pasta
All’inizio del XIX secolo, Agnesi, Buitoni, De Cecco, Voiello, Barilla sono i primi che trasformano la produzione di pasta secca da semi artigianale in industriale.
Liguria, Toscana/Umbria, Abruzzo, Campania, Emilia-Romagna sono le regioni italiane dove sorgono le prime ditte. La loro storia inizia quasi sempre da un mulino o da una bottega di pasta fresca.
Nel 1824 Paolo Battista Agnesi acquista a Pontedassio, nell’entroterra di Imperia, un mulino per macinare il grano e avviare la produzione di pasta secca da cui nasce il primo pastificio italiano, la ditta Paolo Agnesi e figli.
A San Sepolcro (Arezzo), nel 1827, Giovanni Battista Buitoni avvia con la moglie un piccolo negozio di pasta. Nel 1856, i figli aprono un laboratorio a Città di Castello (Perugia), aumentando la produzione. La prima filiale all’estero è del 1934 (Francia), mentre nel 1939, a New York, Giovanni Buitoni fonda la Buitoni Foods Corporation.
In Abruzzo, nel 1831, Antonio Nicola De Cecco inizia l’attività di famiglia con il mulino di Fara di San Martino (Chieti) che, nel 1886, diventa il Pastificio De Cecco. Nel 1893 l’azienda partecipa all’esposizione World’s Columbian Exposition di Chicago.
I “macaroni, vermicelli” prodotti da De Cecco vincono la medaglia d’oro per manifattura, colore e tenuta in cottura.
Negli anni Trenta, Voiello nasce da un matrimonio.
Il tecnico svizzero August Vanvittel, impegnato nei lavori di costruzione della linea ferroviaria Napoli-Portici, incontra e sposa Rosetta Inzerillo figlia di un pastaio di Torre Annunziata. Dopo l’annessione del sud al Regno d’Italia, il cognome della famiglia sui documenti ufficiali cambia diventando prima Vojello poi Voiello.
Nel 1879, Giovanni, figlio della coppia, apre il primo stabilimento Antico Pastificio Giovanni Voiello.
Nel 1877 a Parma, Pietro Barilla senior, discendente da una famiglia di panettieri, avvia una attività con laboratorio dove inizia a produrre piccole quantità di pasta.
Nel 1910 i figli del fondatore aprono il primo stabilimento Barilla.
Italiani mangiamaccheroni e il cibo da immigrati
A dire il vero, la pasta arriva in America prima delle ondate migratorie.
Nel XVIII secolo, Thomas Jefferson, terzo Presidente degli Stati Uniti e all’epoca del viaggio ambasciatore a Parigi, compie un tour alla scoperta di Francia del Sud e Italia del Nord. Nel 1787, Jefferson rimane colpito dalla cultura della pasta al punto da importare in America un macchinario per fare i maccheroni, che migliora e installa nella sua proprietà di Monticello in Virginia.
Nei libri più antichi di cucina americana la pasta è sconosciuta oppure indicata come un alimento straniero. Richard Briggs, autore di The New art of Cookery (1792), cita vermicelli e maccheroni indicando come cuocerli. Amelia Simmons, considerata l’autrice del primo ricettario americano, nel suo American Cookery (1796) non la nomina.
Si può dire che la conoscenza nel territorio statunitense, per quanto dovesse essere molto ristretta, precede le ondate migratorie. Ma è solo l’esodo massiccio che inizia negli ultimi vent’anni dell’Ottocento a dare il via alla costruzione di una identità italiana basata sul consumo di pasta.
Chi affronta l’oceano a volte non vede la fine del viaggio.
Coloro che arrivano a destinazione trovano ad attenderli una lingua nuova, diverse abitudini, innumerevoli peripezie. Per chi sogna gli Stati Uniti, dal 1892, all’arrivo c’è Ellis Island che per molti è stato un luogo di detenzione più che di accoglienza. Anche per chi sceglie una meta europea la vita è difficile e, ovunque, gli italiani sono disprezzati, emarginati e sottomessi all’accettazione di nuovi modelli culturali.
Attraverso il cibo si attua un’operazione di resistenza all’assimilazione e di rivendicazione inconsapevole. Il semplice atto del nutrimento è un modo per non dimenticare e, al contempo, per sottrarsi all’assimilazione.
In queste cucine, col passare del tempo, i ricordi si mescolano e confondono generando piatti e tradizioni che in Italia non esistono come gli spaghetti alla Bolognese e la tradizione del Banchetto dei Sette Pesci (che ti ho raccontato con alcune colleghe food writers).
A inizio Novecento, nelle Little Italy d’America aprono anche i primi Spaghetti House: tovaglie a quadri, fiaschi di paglia, bolognisi e carbunare. In questi ristoranti c’è molto folclore e una italianità sui generis. La bolognisi, ad esempio, indica la pasta condita con un sugo di carne. Non devo aggiungere che qui nascono gli spaghetti alla Bolognese con ragù e polpette.
All’estero, sono gli altri che costruiscono lo stereotipo dell’Italiano mangiamaccheroni e il suo consumo diventa elemento costitutivo di un carattere nazionale.
Il termine che storicamente ha designato prima i siciliani e poi i napoletani ora indica tout court gli italiani.
Dai ghetti ai piani alti
I primi insediamenti italiani per la produzione della pasta sono di stampo familiare e artigianale: si produce in casa con macchine rudimentali e si vende ad altri italiani.
Quando la domanda cresce, inizia la penetrazione industriale dei pastai italiani in America che, poco alla volta, sostituiscono le esperienze di stampo artigianale.
Tra le aziende pioniere c’è la Buitoni.
Come dicevo, nei primi decenni del Novecento, all’estero prende forma l’archetipo dell’italiano mangia pasta. e poiché gli italiani sono disprezzati come poveri e incolti, anche verso il loro cibo c’è diffidenza. I primi a comprendere che questo è un problema da risolvere sono gli imprenditori della pasta interessati a tutto il mercato americano, non solo a quello degli italiani in America.
Come fare? Serve una comunicazione ad hoc.
Dopo la fine della Prima guerra mondiale, per rendere familiare la pasta agli americani è necessario scollegarla dal retroterra dei ghetti italiani delle Little Italy.
Tra gli imprenditori italiani della pasta, Giovanni Buitoni ha un ruolo lungimirante.
Per superare le barriere create dai pregiudizi si prova a rendere la pasta un po’ meno italiana. In questo contesto anche la fake news di Marco Polo che scopre gli spaghetti in Cina portandoli in Italia fa buon gioco. Per questa ragione l’organo di stampa della Associazione industriali statunitensi e canadesi riprende e pubblica la notizia (ne ho scritto nella Storia della Pasta Italiana, parte 1), arricchendola con la storia del marinaio Spaghetti che scende a terra e, guarda caso!, inciampa in un piatto di spaghetti (cinesi).
Questa storia di fantasia diventa persino la sceneggiatura del film The Adventures of Marco Polo (1938) interpretato da Gary Cooper. Della serie anche Hollywood dà una mano alla diffusione della pasta oltreoceano.
In effetti qualcosa di simile è già successo con la ricetta delle Fettuccine Alfredo.
Un piatto che molti, erroneamente, considerano nato in America mentre è una ricetta italiana che diventa italo-americana solo dopo che Douglas Fairbanks (uno dei fondatori dell’Academy Awards), e Mary Pickford, divi del cinema muto di Hollywood, entrambi popolari e influenti, si innamorano delle fettuccine assaggiate nel locale romano di Via della Scrofa. Sono loro a portare la ricetta in patria dove ottiene un successo che ha messo in ombra l’origine italiana.
La duchessa di Windsor e la corona di spaghetti
Giovanni Buitoni, erede del ramo della famiglia di Perugia, trascorre lunghi periodi a New York per curare il business della pasta.
Nel 1940, a Times Square, apre un ristorante dedicato alla pasta condita con sughi italiani, entrambi prodotti dalla Buitoni negli Stati Uniti, oltre alle prime lasagne surgelate.
La sua intuizione è di servire i clienti facendo arrivare i piatti conditi e fumanti su un rullo.
Ed è sempre lui che introduce la pasta nella high society newyorkese.
Questo evento ha un nome e una data: gran ballo annuale offerto dai duchi di Windsor al Waldorf Astoria, 1953.
Giovanni Buitoni, uno dei finanziatori della serata, convince la duchessa di Windsor ossia Wallis Simpson, a servire un piatto che esprime l’essenza dell’italianità, una corona di spaghetti ai funghi.
La ricetta della corona, di fatto un timballo, è pubblicata integralmente il 17 marzo 1953 sulle pagine del New York Times con un articolo firmato da Jane Nickerson (di lei Sam Sifton scrive “la donna che ha diretto la redazione gastronomica del Times dal 1942 al 1957 e ha accompagnato i lettori attraverso l'austerità dei razionamenti del tempo di guerra e la prosperità dell'economia successiva, con centinaia e centinaia di articoli di cronaca, recensioni di ristoranti e ricette che continuano a risuonare ancora oggi”).
Pasta simbolo d’Italia e italianità
Tra la fine della Seconda guerra mondiale e l’inizio degli anni del cosiddetto boom economico, il passaggio dell’assunzione della pasta ad elemento dell’identità nazionale si compie.
L’ultima tanica di combustibile necessaria a terminare il viaggio arriva dai nuovi mezzi di comunicazione, cinema e tv; e dall’esplosione del fenomeno del turismo di massa.
La maggior parte degli italiani d’Italia ha incontrato per la prima volta un americano nel corso del secondo conflitto mondiale. E anche per i militari USA, l’Italia rappresenta una scoperta. Non a caso, dopo la fine della guerra, inizia il primo e vero turismo americano verso l’Europa e nel 1953 il New York Times titola Boom di turismo americano in Italia.
Totò e Sordi portano la pasta al centro della scena cinematografica.
Nel 1954, in Miseria e nobiltà Totò festeggia la fine della guerra e delle privazioni mangiando spaghetti in piedi sul tavolo e mettendoseli pure in tasca, mentre Sordi,
Un americano a Roma, racconta dell’innamoramento degli italiani per qualunque cosa sia made in Usa. E per la pasta.
Nando Mericoni, il personaggio interpretato da Sordi, tenta in modo buffo di assomigliare a un americano imitando lo stile, indossa jeans e berretto da baseball, la lingua (che non conosce), e l’alimentazione (“questa è roba da americani, yogurt, marmellata, mostarda..”). Ma poi cade su un piatto di spaghetti (“maccarone, m'hai provocato e io ti distruggo adesso, io me te magno”).
Dalla fine degli anni Cinquanta la cultura televisiva del Carosello porta la pubblicità della pasta nelle case degli italiani mentre pacchi comodi ed economici affollano gli scaffali dei nuovi supermercati.
Pasta Barilla. B come buona cucina è lo slogan di uno dei caroselli di Mina per l’azienda emiliana.
Sempre in viaggio
Nei decenni successivi, fino ancora agli anni Duemila, le scelte comunicative compiute dalla pubblicità mantengono vivo il mito della pasta simbolo di italianità evocando immagini di casa e famiglia.
Dopo un percorso che ha attraversato ere e culture, l’identità della pasta nel XXI secolo è in evoluzione e sembra avere ancora molto da dire.
Cito, senza entrare nel merito, l’esplosione del fenomeno pasta fresca.
A fianco di quello tradizionale, si affermano nuovi modelli identitari legati, per esempio, alla formazione di una coscienza ecologica (rispetto del territorio, prodotti biologici); o di nuovi modelli di consumo (regimi alimentari non tradizionali).
Inoltre, a fianco della tradizionale pasta secca a grano duro, si affermano nuovi tipi di pasta nati dall’utilizzo di farine alternative.
Eppure, il cambiamento del prodotto non scalfisce la forza del mito.
La pasta dimostra di avere una identità specifica ma flessibile e, nel corso del tempo, questo cibo vivente ha dimostrato grandi capacità di adattamento.
Il futuro? Sta borbottando in pentola.
Corona di spaghetti ai funghi.
La Ricetta
Non potevo coronare questo ciclo dedicato alla storia della pasta Italiana con altra ricetta che questa. La corona di spaghetti ai funghi servita dalla duchessa di Windsor nel 1953 e riportata dal New York Times.
Note di cucina
Metto le mani avanti: ho comprato un rotolo di pasta brisée già pronta.
La ricetta è facile da fare eppure sontuosa. Prendila in considerazione per il pranzo della domenica o la tavola delle feste. Credo sia perfetta per Pasqua che, fra l’altro, è dietro l’angolo. Non contiene carne, puoi prepararla in anticipo (uno o due giorni prima), o tagliare a fette e surgelare (si conserva per oltre due mesi, io sto ancora mangiando qualche fetta gustosa che pesco dal congelatore).
per 6 persone
Stampo tipo da budino da 1 litro.
In alternativa stampo a cerniera, 22 o 25cm di diametro
Ingredienti
400 g di spaghetti sottili
acqua bollente e sale grosso
50 g di olio d’oliva
500 ml di besciamella
300 g di funghi tipo Champignons
30 g di burro
50 g di olio d’oliva
5 g di sale fino
30 g di pangrattato
2 uova
100 g di Parmigiano grattugiato
80 g di formaggio a fette
½ cucchiaino di noce moscata
1 confezione di pasta brisée già pronta (la mia 230 g)
Procedimento
Cuoci gli spaghetti al dente in acqua salata, scola, versa in una ciotola e condisci con olio d’oliva per evitare che si attacchino. Metti da parte.
Prepara la besciamella (qui trovi il procedimento).
Elimina i gambi dei funghi poi elimina la pellicina che copre la cappella o strofina la parte superiore con un panno pulito leggermente inumidito.
Taglia a fette e metti da parte.
In una padella larga, sciogli il burro nell’olio, aggiungi i funghi e metà sale e cuoci a fiamma medio bassa per 10 minuti o fino a quando i funghi sono morbidi e ben cotti.
Preriscalda il forno a 180 gradi, funzione statica.
Versa i funghi nella ciotola degli spaghetti e mescola, poi unisci le uova, la besciamella, il resto del sale, il Parmigiano e mescola ancora per amalgamare bene tutti gli ingredienti.
Rivesti di carta forno inumidita e strizzata lo stampo, poi sistema la pasta brisée in modo che una parte fuoriesca dallo stampo.
Idealmente dividi la pasta in tre parti.
Versa la prima sul fondo dello stampo, aggiungi metà formaggio, poi unisci un’altra parte di pasta, sistema le fette di formaggio, copri con la pasta che avanza e piega verso l’interno l’eccesso di pasta brisée in modo da chiudere il fondo del timballo (se la pasta non copre tutto il fondo, non ti preoccupare).
Copri lo stampo con carta alluminio.
Cuoci in forno già caldo per circa 40 minuti. A metà cottura elimina la copertura di alluminio.
Lascia raffreddare qualche minuto prima di rovesciare il timballo su un piatto da portata e servirlo tagliato a fette.
Puoi riscaldare in forno già caldo coprendo il timballo con carta alluminio.
Puoi conservare in frigorifero per due giorni. E in freezer, già tagliato a fette, anche per due mesi.
Integrazione bibliografica
(la precedente è in fondo alla newsletter parte 1)
Benporat C., Cucina italiana del Quattrocento, Firenze, Olschki, 1996
Buitoni G., Storia di un imprenditore, Milano, Longanesi, 1972
Cafagna L., Cavour, Bologna, Il Mulino, 2010
di Giacomo G., La cucina dei quattro umori, in Civiltà della Tavola, n.249, 2013, pp. 5-6
Gabaccia D.R., We are what we eat: ethnic food and the making of Americans, Cambridge, Harvard University Press, 1998
Martellotti A., I ricettari di Federico II. Dal “Meridionale” al “Liber de coquina”, Firenze, Olschki, 2005
Nickerson J., News of Food, “Crown of Spaghetti with Mushrooms, is American Dish with Popular Appeal”, Tuesday, March 17, 1953, New York Times, p. 25
Prezzolini G., America in pantofole, Firenze, Vallecchi 2002
Prezzolini G., Maccheroni & C, Milano, Longanesi, 1957
Siti
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Monica !!! Che racconto articolato, zeppo di informazioni per me inedite, grazie davvero, è sempre un piacere leggerti.
Sei bravissima a trovare notizie e aneddoti, graaazieeeee
Giuli
E niente, qui si vede chi ha studiato storia e chi no :-P ahahah...bravissima come sempre! E adesso che hai terminato con la pasta cosa ci racconterai?