

L’erba cresce sui tetti della città creando un prato dove non ti aspetteresti di vedere ciuffi d’erba risplendere al sole.
Sul tetto dell’ex convento che vedo dalla finestra del mio studio, sorvegliata -a mia volta- dalla vecchia torre campanaria, osservo una piccola distesa verde. A mano a mano che l’inverno arretra e la primavera avanza, le piante diventano più alte e piegano il capo al passaggio del vento.
Quei fili verdi e sottili sembrano grano. O forse sono io che, come succede sempre in questo periodo dell’anno, sento il richiamo della campagna.
Infatti, anche se sono nata e cresciuta in una piccola città della provincia italiana e, da oltre due decenni, vivo a Bologna, da bambina ho avuto la possibilità di conoscere la campagna prima che la modernità cancellasse ogni traccia del passato.
Sono una persona pratica, le cose accadono.
Tuttavia, sebbene accetti senza difficoltà i cambiamenti, la primavera è un vestito scomodo. Tra tutte, è l’unica stagione che mi fa sentire nostalgica. I ricordi scappano fuori da ogni parte, quelli più recenti, del mio orto che coltivavo all’ombra soleggiata di un piccolo frutteto, e quelli più antichi.
I colori brillanti, quasi spossanti della vita che risorge, riportano alla mente memorie di persone, odori, luci, animali, alberi da frutto. L’aia della vecchia casa era il centro di un mondo agricolo dove ho imparato a conoscere i sapori delle verdure colte direttamente dalle piante, a raccogliere ortiche e altre erbe, pulire conigliera e pollaio, raccogliere le uova. Con gli occhi della memoria rivedo una distesa infinita di campi di erba verde che, sotto un tetto di aria e luce, sarebbe ben presto diventato grano.
E senza raccolto, come avremmo fatto il pane?
Cibo e ritualità
Nel passato, più di oggi, il consumo di un certo cibo era legato alle ricorrenze della vita umana e dell’anno e aveva un valore rituale.
Relativamente al ciclo della vita, c’erano i banchetti legati ai sacramenti, matrimonio soprattutto. In Romagna era usanza organizzare un pranzo dopo il parto, durante il quale, tradizionalmente, si mangiava la tardura, una minestra il cui sapore assomiglia a quello dei passatelli.
La tardura è un piatto tipico anche delle cucine romana, marchigiana e abruzzese dove lo trovi con il nome di stracciatella. In Romagna, è conosciuta anche come minestra del Paradiso.
Un pranzo rituale del quale si è persa la memoria è quello funebre che nell’Ottocento era in uso. Il menù cambiava a seconda dello status sociale della famiglia del defunto; tuttavia, non mancavano mai i ceci o i manfrigoli (una tipica pasta fresca romagnola) perché hanno forma e dimensione di un seme e quindi, come ricorda Eraldo Bandini (La sacra tavola, 2003), simbolicamente richiamavano la possibilità della resurrezione del defunto, proprio come i semi sotterrati danno vita alle piante.
Per quanto riguarda il ciclo dell'anno, la tavola celebrava le stagioni. Penso ai tortelli di erbette tipici di Parma e Piacenza che, in occasione di San Giovanni, celebrano l’inizio dell’estate.
Naturalmente, le grandi ricorrenze religiose di Natale e Pasqua erano quelle che offrivano il maggior numero di piatti rituali. In Emilia-Romagna, lungo tutta la via Emilia, la minestra per eccellenza di Natale era ed è in brodo.
Ai rituali del Carnevale caratterizzati da grande liberalità di costumi e abbuffate, seguivano quelli della Quaresima. Non c’era Pasqua senza Quaresima. Le regole quaresimali pesavano soprattutto sulle persone che vivevano una perenne quaresima a causa della povertà. La dieta abituale di costoro, di solito, era a base di pane raffermo e, a seconda delle zone d’Italia, riso, grani o polenta. Togliendo loro la possibilità di aggiungere quel poco che poteva insaporire il piatto, l’attesa della Pasqua sembrava infinita.
La Quaresima del Pane
Le mie nonne non si sarebbero mai sedute a una tavola senza pane. Inoltre, entrambe usavano quello raffermo per un gran numero di preparazioni: pangrattato, passatelli, zuppe, polpette, torte salate e dolci.
Il pane, in generale tutto il cibo, era prezioso e gli sprechi non erano ammessi in una società prevalentemente agricola come è stata l’Italia fino agli anni Cinquanta del Novecento. A prescindere dalla classe sociale. Poi, certo, scendendo dal vertice alla base, il pane diventava via via più importante visto che era l’alimento primario delle persone più povere.
La zuppa di pane è un piatto povero della tradizione contadina, diffuso in tutta Italia, che si preparava tenendo conto di ingredienti e usi locali. Le varianti regionali delle zuppe di pane raccontano la stessa storia: dove c’era poco da mangiare, il pane vecchio era prezioso.
Era dunque il piatto dei giorni più lunghi e duri dell’inverno, quando la terra non dà nulla; e anche dell’estate quando, grazie a erbe e verdure, prendeva forme diverse e il pane, invece di entrare nella zuppa, era solo bagnato (panzanella) o condito (bruschetta); infine, era il grande protagonista nel tempo della Quaresima.
In Emilia-Romagna, la zuppa di pane si chiama anche pancotto. Una volta era il mangiare dei contadini più poveri e del sottoproletariato urbano. Il pancotto infatti è la versione più plebea tra le zuppe di pane visto che il pane cuoce nell’acqua e non nel brodo a differenza, ad esempio, di altre zuppe come la panata romagnola o la panada (anche paneda) emiliana.
Era un piatto più adatto a saziare che nutrire. Soprattutto quando il pane era fatto con una farina di scarsa qualità, l’unica che potevano permettersi i poveri, anche quelli di campagna.
I diari ottocenteschi di numerosi viaggiatori raccontano che le persone costrette a nutrirsi di pancotto, fatto solo di acqua e pane grigio scadente, avevano facce “tristi, slavate e inespressive”.
Puoi immaginare che festa quando era possibile aggiungere nella pentola un osso, un pezzetto di lardo o l’acqua di bollitura dei cotechini, che si sono sempre fatti anche in Romagna e non solo in Emilia.
La Quaresima spegneva ogni velleità e quei 40 giorni a zuppa di pane dovevano essere insopportabili. Per noi, oggi, la ribollita, per citare forse la zuppa di pane più famosa, è un piatto gourmet mentre, meno di un secolo fa, era il mangiare di chi non aveva alternative.
In Romagna, il Sabato Santo era tradizione rompere e’ pignat, la pentola di coccio usata per cuocere il pancotto, per annunciare la fine della quaresima.
Una cronaca di fine Ottocento racconta che un maestro di un paese di montagna della zona di Forlì, marciò con la pignatta fino alla piazza del paese dove la buttò in terra accompagnando il gesto con una litania di parole non consone al ruolo. Il gesto liberatorio racconta bene quanto fosse difficile vivere di solo pane e acqua.
Zuppe di pane
Esistono molte versioni di questo piatto e una volta erano molte di più.
La conoscenza delle donne del passato faceva la differenza nella sua preparazione.
Il ricorso ad aglio, rosmarino o altre erbe aromatiche, fiori, pomodori, patate, fagioli, sedano, cipolla, lardo, permetteva di dare sapore e connotare il piatto in relazione a disponibilità economica, stagionalità, tradizioni territoriali.
Pancotto, zuppa di pane scuro altoatesina, zuppa gallurese, pappa al pomodoro, ribollita, zuppa canavese, zuppa pavese, solo per citarne alcune, sono ricette sorelle della cucina regionale italiana. Appartengono a questa tradizione anche gnocchetti di pane e canederli.
L’acquacotta era una zuppa diffusa nella zona appenninica dell’alta Valle del Savio (Romagna). La valle del Savio si estende dalle pendici del Monte Fumaiolo, dove nascono, oltre al fiume Savio, anche il Marecchia e la sorgente del Tevere (si, nasce in Romagna!), fino alle coste del mare Adriatico. La ricetta prevedeva un soffritto di lardo e cipolla o, in estate, di scalogno. A questo battuto iniziale si aggiungevano prima pane e acqua e poi pomodori freschi (in seguito anche passata), a volte fagioli. Dopo la cottura, a crudo, si univano verdure come spinaci, sedano, bietole. Non mancava una spolverata di formaggio nei piatti o, per risparmiare, nella zuppiera.
Mentre scrivo, ripenso anche alle parole di Carlo, proprietario del ristorante Delfina in Artimino, frazione del comune di Carmignano (provincia di Prato), custode di una toscanità autentica, mentre ricordava il gesto della nonna Delfina che, al suo banchetto di nozze, raccolse le briciole dal tavolo per metterle da parte per la zuppa di pane. Se capiti da quelle parti, fermati per mangiare, ne vale certamente la pena.
Insalata di pane
Anche la panzanella appartiene alla famiglia di ricette della cucina povera a base di pane vecchio. Si tratta di un piatto rustico: pane raffermo bagnato in acqua fredda e mescolato con cipolla, pomodori, acciughe e condito con olio, aceto, sale ed erbe odorose.
Piatto tipico dell’Italia centrale praticato in Romagna per contiguità geografica, come scrive Graziano Pozzetto (Le minestre romagnole, 2009). Un conto, infatti, è la zona d’origine e un’altra quella di diffusione.
La panzanella ha quindi origine in altre regioni e si diffonde nelle zone vicine come la Romagna, ultima area del nord Italia dove finisce la Pianura Padana.
Nelle campagne ravennati si mescolava il pane con la cipolla e si condiva con olio, sale e pepe. L’utilizzo dell’olio non deve necessariamente far pensare a quello d’oliva. Anche se la Romagna è storicamente produttrice di questo prodotto, la sua diffusione fu a lungo limitata dal costo e la sua introduzione in cucina è piuttosto recente. Nella Valmarecchia, zona di Rimini che confina con le Marche, la panzanella si preparava con olio, sale e aceto oppure con aglio e prezzemolo o, ancora, con erbe di campo crude.
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Pastasciutta di pane
Mentre facevo ricerca per questa newsletter, ho letto di una zuppa di pane romagnola conosciuta come pastasciutta di pane che mi ha fatto venire in mente la pappa al pomodoro e la ribollita che preparava Delfina. Un piatto che, nei racconti del nipote Carlo, sapeva di erbe e fiori e stava in piedi (cioè era poco brodosa).
La pastasciutta di pane prevede un soffritto di sedano e cipolla, a cui si aggiungono pane raffermo, acqua e un pizzico di sale. Durante la cottura entrano nel tegame anche salsa di pomodoro, o pomodori e, solo alla fine, una spolverata di formaggio. Io aggiungo anche un giro d’olio d’oliva e qualche foglia di basilico visto che ho ancora quello trapiantato da mio babbo l’anno scorso.
E, come la ribollita di Delfina, sta in piedi e si mangia con la forchetta.
Mio marito ha fatto il tris. Non immaginavo avrebbe incontrato così tanto successo ma, devo ammettere, anche io l’ho trovato squisito oltre le aspettative.
Con quello che è avanzato, non molto, ho fatto una torta di pane.
Ho solo steso gli avanzi in una teglia larga, ho pareggiato con un cucchiaio e infornato fino a rendere i bordi croccanti.
Se sistemi sulla superficie una insalata fresca già condita, avrai un piatto unico eccezionale.
Pastasciutta di pane, la ricetta



per 4 persone
Ingredienti
200 g di pane raffermo
700 ml di acqua
100 g di sedano
50 g di scalogno o cipolla
1 g di sale grosso
100 g di salsa di pomodoro
20 g di concentrato di pomodoro
30 g di Parmigiano reggiano grattugiato, o altro equivalente vegano
olio d’oliva e sale q.b.
qualche foglia di basilico, lavata e asciugata
Metodo
Taglia a pezzi il pane, metti in una ciotola e copri con metà dell’acqua.
Lascia riposare per 10 minuti.
Nel frattempo, taglia finemente lo scalogno o la cipolla e il sedano a pezzetti di circa 1 cm.
Sistema le verdure in un tegame dai bordi alti con olio d’oliva e un pizzico di sale, soffriggi dolcemente per 5 minuti.
Versa il pane con l’acqua e metti la pentola su fornello piccolo e fiamma medio bassa.
Aggiungi il sale grosso e il resto dell’acqua. Mescola, unisci anche pomodoro e concentrato, mescola ancora e cuoci per 10-15 minuti o fino a quando il pancotto è quasi asciutto. Non deve essere liquido, solo morbido.
Unisci il Parmigiano, un generoso giro d’olio, il basilico fresco, mescola e assaggia.
Se serve aggiusta di sale.
Servi la pastasciutta di pane calda se fa da primo piatto; a temperatura ambiente con una teglia di verdure come piatto unico.
Consigli
Puoi usare metà acqua e metà brodo (quello che vuoi).
Aggiungi altri sapori a tuo piacimento: una spolverata d’origano fresco o essiccato; qualche cucchiaio di capperi tritati finemente, una manciata di olive denocciolate.
Torta salata di pane
per 4 persone
Ingredienti
quelli della ricetta precedente dimezzati (oppure gli avanzi)
Metodo
Preriscalda il forno a 190 gradi, funzione statica.
Ungi una teglia di circa 18-20 cm di diametro, versa il pancotto stendendolo in uno strato sottile.
Sistema la teglia in forno e cuoci per 12 minuti o fino a quando i bordi diventano croccanti.
La mia Moni ♥️
Eraldo Baldini mi raccomando